Dopo Paestum, una proposta di dialogo

11 Giu

dalla rete nazionale delle Donne in nero

Da tempo ci ripromettevamo di entrare nel dibattito sulle questioni di Paestum e del dopo-Paestum e lo facciamo ora con questo contribuito, che ha alle spalle una ampia discussione al nostro interno.
Ci auguriamo che i temi che noi sentiamo di grande rilevanza e urgenza coinvolgano anche altre e che ne nasca uno scambio a più voci.

Perché vi scriviamo

A inizio aprile la rete nazionale delle Donne in Nero si è incontrata a Roma e il primo tema di cui abbiamo discusso è stato “Pace/guerra da un punto di vista femminista”, questione che è al centro di tutta la nostra storia, delle nostre riflessioni e delle nostre pratiche, ma che ci si ripropone sotto diverse luci a seconda degli aspetti da cui volta per volta ci sentiamo più immediatamente interrogate.

Nel caso del dibattito romano, la decisione di inserirla nel programma dei lavori è maturata a partire dall’anno scorso, grazie al convegno di Paestum e alla vivacità dei confronti che si sono accesi prima, durante, dopo l’incontro e che continuano tuttora. Molte di noi sono state coinvolte nelle riunioni tenutesi in varie città durante il percorso di preparazione, molte hanno partecipato al convegno, molte ne hanno discusso nelle riunioni successive. C’è stata chi – non potendo andare a Paestum – ha segnalato ad altre, che invece andavano, la mancanza totale nel documento preparatorio di qualsiasi accenno al tema della guerra; c’è stata chi è andata e avrebbe voluto introdurlo, almeno nei lavori di gruppo, e non ne ha trovato lo spazio; ma ci sono anche stati casi in cui nelle discussioni preparatorie siamo state sollecitate ad occuparcene noi, quasi si trattasse di una competenza specialistica e ce ne venisse affidata la delega.
Ci sono parse difficoltà inquietanti e abbiamo provato il desiderio di chiarire – prima di tutto tra di noi, ma anche nelle relazioni con altre – che cosa significhi per noi il rapporto tra femminismo e antimilitarismo. Negli scambi al nostro interno si è sviluppato un confronto complesso, che ha indotto ad approfondimenti significativi attorno a nodi su cui si era magari data per condivisa una certa posizione e si scopriva invece che le sensibilità e gli orientamenti differivano, sin dalla individuazione di quale sia l’aspetto che ciascuna sente più incalzante rispetto a pace e guerra e sin dalla scelta delle parole per esprimere i diversi sguardi: antimilitarismo femminista? femminismo e guerra? donne e guerra? le donne soldato ci riguardano? e ci riguardano le violenze maschili da cui tanto spesso sono colpite?
Per mesi ci siamo scambiate messaggi, a Roma ne abbiamo ragionato insieme per alcune ore e abbiamo concordato di scrivervi, per proporre un confronto che riteniamo possa interessare il dibattito del “dopo Paestum”. Ci è anzi difficile rivolgerci a “voi” come se foste altre da “noi”, perché l’orizzonte dei femminismi ci accomuna; desideriamo piuttosto accennarvi le ragioni che a nostro parere rendono irrinunciabile – e necessario per tutte, proprio in quanto femministe – misurarci con guerre, armi, militarismi e soprattutto culture che hanno interiorizzato e continuano a riproporre tutto ciò come una dimensione immutabile dell’esistente.
Quindi, grazie per avere promosso e condotto l’iniziativa di Paestum, che ha ridato a tutte una grande vitalità, nell’incontro tra donne differenti per età, storia di vita, interessi; e grazie per mantenere aperti gli scambi virtuali e reali, nei confronti che avvengono in rete e nelle riunioni organizzate in varie città. Questo che vi proponiamo è appunto un contributo, attorno a una questione che riteniamo ci riguardi tutte e su cui perciò vorremmo che altre si esprimessero.

“Pace/guerra da un punto di vista femminista”

Dalla relazione che è stata fatta sull’incontro di Roma, riportiamo la parte relativa alla discussione su questo tema; costruita per punti, fornisce una sintesi che attraversa i vari interventi.

Femminismo pacifista: tema delegato a noi DIN?

L’incontro di Paestum ha coinvolto parecchie di noi: negli incontri preparatori in diverse città, nella partecipazione, negli incontri successivi.
A Torino, avendo notato l’assenza assordante del tema della guerra siamo state sollecitate a occuparcene noi, DIN: una sorta di delega alle addette ai lavori che ci ha fatto pensare. Abbiamo quindi proposto alle altre donne della Casa delle Donne, in cui si erano svolte le discussioni su Paestum, di parlarne insieme. Ecco alcuni spunti dagli interventi delle nostre amiche: elaborare su questo tema ci provoca dolore; è una cosa troppo grossa, non ce la faccio; mi sento estranea…
Anche diverse donne che partecipano con noi alle uscite si sentono di supporto; condividere è un’altra cosa, quando la pratica e le parole crescono insieme.
Eppure ci sembra che la decostruzione del patriarcato sia radice del femminismo; come non sentire come fondante la questione della guerra? La cultura patriarcale così diffusa pervade anche molte donne? Ci si rassegna all’esistente? Cosa è cambiato?
Cosa è cambiato?
Partiamo da noi, come sempre. Dalla nostra storia, dalle pratiche di relazione, dai nostri desideri, dai nostri percorsi di libertà femminile intrecciati alle pratiche di relazione, sostegno, denuncia, controinformazione; dai valori di pace come bene comune, dignità, decostruzione del nemico, nonviolenza; con lo scopo di attivarci permanentemente per elementi di pace, nella tutela dell’ambiente come nella denuncia delle spese militari, nella ricerca della nostra specificità nella politica come nel contrasto del femminicidio; nel nostro paese in crisi e sofferente, diventato ormai un “luogo difficile”.
Parliamo anche delle nostre difficoltà: siamo stanche, stiamo invecchiando, i nostri gruppi si assottigliano e non c’è ricambio di donne giovani; certo, siamo riconosciute e apprezzate nei nostri ambiti, ma come icone.
I molti femminismi, ancora attivi, non mettono in relazione la guerra con la violenza contro le donne, di cui molte si occupano; le giovani hanno modalità e ambiti di attivismo diversi e spesso misti; la partecipazione alle nostre iniziative sulle guerre rimane sporadica, a volte scarsa, spesso sentiamo come non incisive le nostre attività.

Cultura di guerra

Ci guardiamo intorno, nel nostro paese e non solo, per riconoscere le forme / le maschere che patriarcato e militarismo hanno assunto, avvolgendoci in una pervasiva cultura di violenza e di guerra, diventata ovvia e quasi invisibile.
• I conflitti si risolvono con la forza; la guerra è il punto massimo dei conflitti; la legge del più forte è quella vincente; chi vince ha sempre ragione.
• La militarizzazione e le forme militari sono presenti in ogni ambito: legale (pensiamo alla militarizzazione del territorio de l’Aquila, e alle discariche nel napoletano, e alla Valle di Susa…) o illegale, come la struttura della camorra; non si tratta solo dell’esercito.
• L’uso della forza e della violenza è tollerato dalle istituzioni: dalla violenza domestica, che ben poco viene contrastata, a quella delle forze dell’ordine, spesso impunita. La cultura dominante è una cultura di guerra.
• La degenerazione dei rapporti di convivenza è tangibile: siamo un paese in guerra, ma alla guerra si danno nomi che la negano – “missioni di pace”, “interventi umanitari”. E tutto si giustifica in nome della “sicurezza”.
• La denuncia dei costi degli F35 e dei vari sprechi militari ci riesce utile per stabilire una relazione più immediata con chi ci incontra, ma noi non ce ne sentiamo soddisfatte, la sentiamo come una riduzione un po’ strumentale.
• Le conseguenze della guerra sono taciute o negate, dall’inquinamento del territorio ai morti per uranio impoverito, fino alla mostruosa quantità di soldi sprecati.
• La crisi è a sua volta conseguenza e forma della guerra: guerra economica, contro i/le deboli, gestita con la violenza dei dictat economici e della repressione del dissenso, come in Grecia.

Noi che non fummo a Paestum – e noi che ci fummo

Se alcune tra noi hanno partecipato al convegno dello scorso ottobre e molte no, tutte ci riconosciamo nel partire da sé come femministe che ne è stata l’anima, nell’affermazione che l’esperienza personale “è già politica” (come è stato scritto dalle promotrici dell’incontro), nel vivere quella femminista come una “rivoluzione necessaria”. In questo senso il nostro desiderio di essere partecipi di una simile “sfida” non dipende dall’essere state a Paestum oppure no, ma dalla tensione a fare sì che anche attorno al nodo che ci appare cruciale – confrontarci da femministe con l’intreccio tra militarismo e patriarcato – venga investita quell’attenzione e quella volontà di esercitare “una spinta trasformativa” che sono state dichiarate come “voglia di esserci e di contare” per produrre una “modificazione visibile del lavoro, dell’economia, e più in generale del patto sociale”.
Come femministe nonviolente e pacifiste, riteniamo che alla base del “patto sociale” ci sia innanzi tutto la costruzione storica dei modi di essere donne e uomini che, pur se in forme diverse nello spazio e nel tempo, si impernia ovunque sulla gerarchizzazione delle une come subordinate agli altri, sulla affermazione di una virilità aggressiva che legittima socialmente la violenza contro le donne, che trasforma l’altra/o in nemico, che porta a praticare e percepire come necessario e giusto l’ordine materiale e mentale della guerra. Ѐ questo il ‘retaggio del dominio’ che alimenta tuttora le ingiustizie nei rapporti di lavoro come in quelli economici e cui si rifà chi ne detiene il potere per decidere come affrontare l’attuale crisi del sistema a livello mondiale, con quali priorità e a vantaggio di chi. Riconoscersi come fondate sulla relazione con l’altra/o è invece il punto di origine del femminismo e in questa prospettiva uscire dalla legge del più forte significa guardare alla nonviolenza come a un processo da mettere in atto per smarcarci dal patriarcato.
Una delle formulazioni che meglio hanno espresso quale sia il punto di partenza e l’orizzonte delle Donne in Nero è “smilitarizzare le menti”, frase coniata a Belgrado e largamente ripresa a livello internazionale. Saperlo pensare e praticare nel pieno delle guerre balcaniche è stato tanto coraggioso quanto fondamentale per resistere alla pressione divisiva dei nazionalismi – densi di fascismo nella rivendicazione della patria e dell’onore guerresco e proprio perciò sorretti dalle più abbiette pulsioni ad umiliare il nemico nel corpo delle ‘sue donne’, ma anche ad aggredire come traditrici le ‘proprie donne’ se non si immedesimavano in quella esaltazione bellicosa.
Nell’incontro di Roma c’è chi ha parlato di come la crisi – o meglio, il modo in cui viene presentata e gestita negli attuali rapporti di potere di questo paese – restringa i nostri spazi di agibilità politica, sotto la cappa del TINA (There is no alternative), da un lato e della rassegnazione ad esso, dall’altro. Ma è anche stata evocata la positività del filo di intelligenza che i femminismi hanno variamente sviluppato lungo decenni di sovvertimento delle culture e delle strutture. Vediamo l’orrore delle guerre che continuano a devastare vite e territori, però sappiamo che ha senso portare il nostro granello, per quanto piccolo, a incepparne i meccanismi e ci pare che ciascuna possa contribuire alla smilitarizzazione delle menti nella sua vita quotidiana e nelle sue relazioni personali così come nello spazio pubblico.
Su tutto questo, e su tanto altro, vorremmo che sentissero il desiderio di confrontarsi con noi altre che a Paestum e nel dopo Paestum hanno privilegiato priorità differenti dalla nostra. Ci sentiamo comprese nella prospettiva delineata come “Primum vivere”; la proposta che facciamo è di intrecciarla con la citazione da Christa Wolf:  “Tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere”, in cui tante femministe hanno riconosciuto le radici del loro rifiuto delle guerre e delle logiche di guerra, perché – con Cassandra – lì stanno le basi della violenza del patriarcato.

3 Risposte to “Dopo Paestum, una proposta di dialogo”

  1. Barbara Cassinari 24 luglio 2013 a 13:34 #

    Care donne in nero, ho letto con attenzione seppur con un po’ di ritardo il vostro contributo e l’ho molto appezzato. Avete ragione, dobbiamo parlarne di questo “smilitarizzare le menti” e anche del concetto della terza via.. L’esperienza della guerra per le donne è un momento cruciale purtroppo da sempre per la definizione della propria identità (penso alle partigiane) e forse è necessario, adesso che ne abbiamo le basi culturali e democratiche, arrivare alla terza via per evitare che questo continuamente accada. La violenza contro le donne non è forse una guerra che stiamo vivendo in casa?
    A presto

  2. serenella angeloni 12 giugno 2013 a 07:22 #

    grazie per il lavoro da una din di bg, sono d’accordo su tutto.C’è molto ancora da dire, non ci riesco perchè è doloroso e difficile. Mi riferisco ora in particolare a due punti: il fatto che non riusciamo a inglobare le nuove forze vitali e il fatto che ci presentiamo sulla strada come icone nere, silenziose , immobili . ( un uomo, passando ha detto :” la compagnia della buona morte”)
    Certo siamo proprio lì per ricordere le assurde CATTIVE morti che la guerra spande dappertutto, ma se vogliamo rendere viva la nostra protesta e colpire l’attenzione e la voglia di partecipazione delle giovani dobbiamo, come Donne in Nero, trovare nuove modalità , forse prendere esempio dalle sudamericane, non lo so; ma penso valga la pena di parlarne.serenella

  3. Laura cima 12 giugno 2013 a 05:16 #

    Sono totalmente d accordo con la vostra analisi che è la mia, la nostra: secondo me dobbiamo confrontarci su cosa fare, ad esempio come portare questi contenuti alla camera,alle donne elette che ci vorranno ascoltare: mi pare che la boldrini sia molto disponibile a fare iniziative nella direzione di un progetto femminista antimilitarista

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